Quarta di copertina

Otto della mattina, all’inizio di un caldo weekend estivo. Monica osservò la soglia e scosse la testa: avevano colpito ancora e questa volta era stato il turno del libro aperto, la copertina raffigurata al centro della saracinesca. Due uova si erano immolate sul metallo per proseguire placide verso il basso, con una scia amorfa giallastra e implacabile. Si chinò e, con l’ausilio di un kleenex, aprì il lucchetto che assicurava il maniglione al gradino, punto di arrivo della frittata cruda. Dopo una rapida occhiata al vicolo ancora deserto sollevò il metallo e varcò l’entrata: accesa la luce, si diresse verso il tavolo con tre sedie a cui faceva accomodare i clienti. Non sperava certo di individuare il responsabile, certi “artisti” lavorano col favore dell’oscurità. E le uova ormai rapprese le davano ragione: comunque inservibile anche per la colazione di qualcuno non troppo schizzinoso.
La peculiarità della sua libreria: un tè o il caffè con biscotti fatti in casa, prima di consigliare un libro partendo dalla quarta di copertina. Il nome della libreria, il sunto della storia, il sommario delle vicende narrate nei romanzi. E la vita di Monica la libraia, cinquant’anni, altezza media e capelli scuri, trucco minimo e sapiente. Abiti fatti in casa, come i biscotti, da donne del centro storico su modelli originali: a chi cuciva lasciava solo la scelta delle stoffe.
Anche per i libri che vendeva, sceglieva editori indipendenti e autori emergenti, lontani dai bookstore dei grandi; gli incassi non erano certo pingui, ma aveva di che vivere. E poteva coltivare la sua unica e vera missione, l’idea attuata nel suo piccolo regno.
Riempito con acqua il bollitore lo accese e cercò il numero sulla rubrica dello smartphone. Era l’ultima arrivata nell’elenco delle amiche.
– Non dirmi che sei ancora sotto le coperte. Oggi mi serve il tuo sostegno!
Alla breve risposta Monica reagì serrando la mano sinistra, tranciò la comunicazione e ascoltò le proprie parole.
– Una bella scusa, davvero. L’influenza il dieci di agosto: perché non dire “Non ne ho voglia” o “Il mio amore è arrivato all’improvviso”. Non ha mai capito la libreria in Via della Maddalena, figuriamoci poi l’orario di apertura. Secondo lei sarebbero i proprietari dei bar quelli che spargono sulla saracinesca insalate di uova e verdure. A causa delle colazioni che offro ai rari amanti mattinieri della lettura? O perché credono che un posto come il mio non ci azzecca con i vicoli genovesi? Amaro a dirsi, ma meglio sola…

Versò il tè, aggiunse il latte e lo zucchero. Pensando all’appuntamento che la attendeva, le labbra sottili disegnarono comunque un sorriso, prima di gustare l’infuso.

 

Sabato mattina si traduce per molti in sveglia senza allarmi o suonerie: nemmeno Mario Pinozzi fa eccezione, insieme alla prima poppata di caffeina dal seno stanco della vita. Da gustare con calma, un paio di ore dopo la levataccia dei giorni feriale: non certo quel bicchiere con liquido sporco erogato dalla macchinetta in ospedale.
E la doccia calda, anche in estate, godendo dell’abbraccio umido che gli scivola addosso senza fretta: diversamente dagli altri giorni di lavoro, tra un corpo e l’altro da sistemare, i familiari in ansia, le lacrime. Come talvolta accade perfino nel weekend, quando la natura o il fato combinano guai cui deve rimediare con il bisturi. Questo sabato niente problemi, nessuna spiaggia affollata o lotte tra asciugamani: lo attendevano una persona e dei libri all’ombra dei vicoli. Tradotto in altri termini sveglia alle otto in attesa della dose di stimolante, visto che Monica la libraia gli aveva proposto una sorta di caffè letterario a due. Brioche inclusa.

Mentre cercava gli indumenti minimi necessari per uscire, Mario ricordò il loro primo incontro . L’occasione era stata un evento serale con cibo e drink per strada, musica e negozi aperti a clienti e curiosi.
– Un’idea originale, dare al negozio il nome del lato B di un libro. – disse Mario
– Un commento maschilista, ma spiritoso signor…?
Monica tese la mano a Mario che la osservò a lungo prima di stringerla.
– Mario Pinozzi, scusami per la battuta. Non intendevo offendere.
– Niente scuse, almeno hai parlato sincero. Lo apprezzo. Ma adesso mi restituisci la mano?
– Hai dita gentili e decise, bello tenerle tra le mie. E questo anello, davvero originale.
Monica abbozzò un sorriso, gli occhi seri.
– Un ricordo di famiglia. Nella quarta di copertina di un romanzo questa scena a due sarebbe ideale. L’inizio di qualcosa, di una storia tra due vite.
– Qualcosa di bello? O di drammatico? – disse Mario, trattenendo la mano.
– Vedo che hai colto il senso: in poche righe l’autore accenna alla trama, traccia i contorni del protagonista e stuzzica l’immaginazione. – Monica liberò le dita.
– – O lancia una sfida al lettore, lo spinge a indagare.
Come preferisci, il risultato non cambia: leggerai comunque la vita di qualcuno e di chi gli sta accanto. E la “quarta” serve a farti scegliere libro e storia: ecco spiegato il nome della mia libreria.

Era passato un mese e il libro acquistato nell’occasione da Mario rimaneva aperto alle prime pagine, la copertina rivolta in alto.
Non si trattava di pigrizia, nelle dediche aveva letto che l’autore ringraziava una donna lodando le sue doti di libraia. Il nome di lei e la città del negozio fecero il resto: Monica e Genova. Non credeva alle coincidenze e la sua immaginazione era pigra, ma amava le sfide. Un giro di telefonate a due amici che si definivano lettori forti gli fornì soltanto scarsi indizi: la donna aveva iniziato l’attività in primavera, giunta da Milano, teneva titoli di scrittori emergenti o speranzosi, conduceva una vita riservata in campagna. Nei giorni successivi aveva rintracciato il numero della libreria e fissato un appuntamento, visto che la possibilità di andarci con gli amici era negata. I due erano di certo partiti per le vacanze, impossibile rintracciarli, mentre a Mario l’agosto in città non dispiaceva. E la colazione in libreria lo stuzzicava, anche in un sabato estivo.

– Bella questa libreria, ma non vedo nessun bricco fumante! – disse Mario, porgendo il pacchetto a Monica – Io ci metto le brioche e l’appetito, tu datti da fare con la polvere nera.
– Niente paura, miscredente. Preparo in un attimo, la moka è pronta; nel frattempo dai pure un’occhiata agli scaffali. Hai letto il libro?
Mario rispose citando le note salienti del romanzo, dal retro del volume, le poche parole lette oltre alla dedica.
– Almeno hai guardato il lato B, come lo chiami tu, anzi praticamente te lo sei imparato a memoria. – lei ammiccò sorniona.
– Toccato, ma a mia discolpa posso addossare ogni responsabilità ai turni di lavoro: massacrato dalle ferie dei colleghi, turni senza respiro. Con annesso crollo serale.
– Non cercare scuse, se non leggi romanzi non leggi la vita.
– Intendi dire che gli scrittori sono bravi cronisti che raccontano le vite degli altri?
Monica accarezzò con dolcezza il dorso dei volumi riposti negli scaffali, foggia e colori diversi; rigirò più volte l’anello al dito e versò il caffè in due tazze di oregio. Per Mario dose doppia.
– Acqua, sei lontano. Lo scrittore dà voce alla vita, trasporta nei romanzi storie di persone ordinarie che nessuno noterebbe.
– Ma si tratta di vite inventate, parto della fantasia di qualcuno. A meno che…
– Fuocherello, ti stai avvicinando. La vera questione è dove sta il confine tra finzione e realtà. E qual è il vero ruolo dello scrittore .
Mario grattò la barba sul mento, di due giorni, già ruvida.
– Ho una domanda diversa: che compito ha una libraia, si limita a divulgare queste vite in bilico tra realtà e fantasia?
Un sorriso di Monica, l’anello cambiò dito.
– Personalmente mi considero una sorta di testimonial che sponsorizza le vite di perfetti sconosciuti.
– Che accettano il rischio di essere identificati dai lettori dei romanzi.
Monica incassò l’osservazione di Mario senza muovere un muscolo.
– Non è prioritario, si tratta di un rischio calcolato. – replicò – Se hai condotto un’esistenza da invisibile può essere il giusto prezzo per finire sotto i riflettori.
Mario si era alzato, intento a curiosare tra i libri; ne sfogliò alcuni che ripose dopo avere letto la quarta di copertina, i cenni della storia e le note sugli autori.
Osservò Monica poi si avvicinò a lei, un volume in mano.
– E possono anche accettare di sparire nell’ombra dietro i riflettori.
Posò il libro sulla scrivania con la foto dell’autore in vista, tra le righe di riassunto della vita narrata all’interno.
– Franco Munoz, origini spagnole, ingegnere civile da sempre. Un matrimonio fallito, vita ordinaria e pochi amici fra cui il sottoscritto. Che tenta invano di contattarlo da parecchi giorni.
– Siamo in piena estate, anche i divorziati vanno in ferie. Non tutti amano restare in città come noi due.
Monica piantò gli occhi in quelli di Mario.
– Diciamo che a me non dispiace il caldo metropolitano, ma che fa una libraia non comune, la mattina di un sabato di agosto, con un chirurgo che legge poco?
Monica tolse l’anello dal dito e lo posò sulla scrivania. Fissò Mario con occhi placidi e liberò parole chiare.
– Cerca di convincerlo a raccontare la propria storia, è persuasa che abbia vissuto intensamente. E sia in grado di dire molto.
– Vedo che sei in gamba a cambiare le carte in tavola: ma dimmi, vale anche per il destino del protagonista? Sappi poi che uso più volentieri il bisturi della penna e la mia realtà ha spesso superato la fantasia più sfrenata.
– Si tratta di dettagli, ciò che conta è la trama: intrigante, mai scontata e i personaggi devono lasciare qualcosa.
Mario indicò con un cenno il libro sul tavolo.
– Qualcosa o tutto? A chi poi, ai lettori o alla proprietaria della libreria? E in cambio di cosa?
– Fissare il momento, una vita interessante, amicizie vere, amori travolgenti. Evitare una vecchiaia in solitaria e una morte anonima, ciò che sta scritto in questi volumi vivrà per sempre!
Preso il libro dalla scrivania lo agitò davanti al volto di Mario.
– Ma si tratta di un inganno! – disse lui – Tu offri la lusinga del riscatto da una vita anonima al prezzo della vita stessa. Proponi di diventare protagonista a chi era tagliato per un ruolo secondario, comunque utile per qualcosa o qualcuno. Hai creato dei kamikaze letterari che si immolassero in una guerra senza scopo: una vera burattinaia di anime fragili.
– Ho dato loro un obiettivo, li ho fatti sentire qualcuno almeno una volta nelle loro esistenze.
Mario afferrò il volume e osservò il prezzo.
– Quanto incassi in un mese con la libreria? Passando da qua non ho mai visto ressa di clienti. E da quanto va avanti questa storia dei romanzi? Ho notato volumi recenti e altri datati, di decenni passati: di certo non hai iniziato l’attività di “promoter” nell’infanzia.
Una pausa di silenzio, sguardi incatenati. Il respiro di Mario un poco affannoso, un accenno della sua “fame” si fece strada verso i muscoli. Strinse il libro con forza tra le mani, quasi lo accartocciava.
– Nulla da dire in proposito?
– Sei solo un altro piccolo uomo che non apre mai un libro, sputa sentenze e riempie i giorni di routine: ti senti così diverso dagli scrittori protagonisti dei miei romanzi?
Il medico sollevò gli occhi e scosse la testa.
– Non ti ho giudicato, ho solo chiesto. La mia routine è fatta di sangue, sudore e lacrime e ogni giorno sfoglio pagine di vita che neanche immagini. Ora mi dici chi sei veramente?
Monica infilò l’anello all’anulare sinistro e porse la mano a Mario.
– C’eri quasi arrivato: oltre ai libri sta tutto in questo gioiello. Ma non chiedermi altro: facendo quello in cui credevo ho regalato vite straordinarie a persone ordinarie. Se ne sono andate lasciando una firma, un autografo e fissato attimi che resteranno come li hanno scelti. Hanno deciso di non subire una vecchiaia che non intendevano accogliere. Ora vai anche tu, a casa, in ospedale o alla polizia: non mi hai compreso, spero almeno tu sappia cosa fare.
E tieni pure il romanzo del tuo amico, ma leggilo.

Anche il ferragosto era passato, l’afa insisteva e giunsero i primi temporali. Dopo la pizza e il caffè Mario rinunciò all’uscita con l’ombrello e si dedicò al libro dell’amico scomparso. Il foglio bianco fece capolino dopo poche pagine, piegato, scritto a mano con grafia elegante.

“Il chirurgo cura i corpi sofferenti, il cuoco sazia gli appetiti, il libraio vende libri. Bugia, il libraio conosce storie e consiglia il lettore: avventure, amori, tragedie e commedie, omicidi e nascite. In un libro trovi tutte le vite che desideri, riflessi di esistenze reali: è appagante riuscire a soddisfare le aspettative di chi legge, far vivere un sogno, un film. Ma si tratta pur sempre di vite inventate in cui il lettore cerca qualcosa o in cui fugge da qualcuno. Mia nonna, la proprietaria dell’anello, ebbe l’intuizione: perché non dare corpo a personaggi nell’ombra, mostrare vite invisibili, rendere protagonisti delle mere comparse? Anche un secolo fa esistevano editori, tipografie e donne che lavoravano in libreria, a Milano i caffè letterari non erano un’eccezione. Molti spiriti vivi abitavano corpi in letargo che non riuscivano a destare: a noi spettava il compito di far vivere i sogni, questo abbiamo fatto io e mia madre guidate dalla sua. Il logo dell’antica libreria era il simbolo di famiglia, l’anello che hai visto al mio dito: simboleggiava un legame, una promessa. Solo qui a Genova ho “modernizzato” il nome e l’insegna, e ti ho spiegato il significato.
Chi legge un libro, come chi lo scrive, riceve e dona qualcosa: non ho rubato nulla al tuo amico né agli altri, salvo la loro storia che ho regalato a molti. Buona lettura. Monica”.

Sopracciglia sollevate e fronte corrugata, un massaggio al mento per trovare la barba rassicurante; nessuna voglia di giudicare, in testa il ricordo del giorno precedente: l’immagine della libreria chiusa e il cartello “Affittasi” sulla saracinesca.
Mario aprì la finestra per accogliere l’aria fresca e riprese la lettura del romanzo.

Marco Moretti

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Nel Montello

I piccoli erano entusiasti, finalmente le due mamme si erano organizzate per andare a castagne, avevano chiesto il permesso al loro vicino di casa per prenderle nel suo pezzo di bosco.
Alberto e Alessia spiegarono a Davide durante il tragitto quello che la mamma aveva detto loro: − Il bosco è tutto privato, sai, non si può andare dove si vuole. Ce lo ha detto la mamma. Ieri ha chiesto a Giulio se potevamo raccogliere le castagne da lui e ci ha detto di sì.
Chiara parcheggiò l’auto in uno spiazzo, da lì avrebbero continuato a piedi sulla stradina sterrata che si inoltrava nel bosco; Giulio, il suo anziano vicino, le aveva spiegato che l’inizio del suo terreno era dato da una fune attaccata a due alberi e le aveva sottolineato che era visibilissima.
I bambini scesero dall’auto appena sentirono il motore che si spegneva: avevano gli stivali ai piedi e il berretto in testa. Quel giorno faceva finalmente un po’ di freddo, anche se loro non lo sentivano e si lamentavano di tutto quello che avevano addosso. Presero un cestino a testa dal bagagliaio e cominciarono a correre verso la stradina.
−Fermi − intimò Chiara – regola numero uno, state vicino a noi, vi potete perdere e ritrovarvi sarebbe un casino, chiaro?
−Ma ci sono i lupi? – chiese preoccupato Davide alla sua prima esperienza nel bosco.
−Noooo− rispose sicura Alessia − però ci sono le fate e i folletti, anche quelli cattivi e ti rapiscono se ti vedono da solo.
−Sono solo leggende Ale! Tu credi a tutto! – la rimbeccò il fratello.
−L’ha detto la mia maestra e lei sa tutto, sei tu che non capisci.
−Basta bambini! Fate prendere paura al vostro amico e anche agli animali. Fate silenzio così magari vediamo uno scoiattolo.
−Mamma, la mia maestra ha detto che sono già in letargo.
Chiara sospirò: la maestra sapeva tutto e non si poteva contraddire. Si avviarono lungo la stradina chiacchierando. I piccoli guardavano gli alberi, si fermavano a raccogliere tutto quello che incontravano lungo la strada: sassi, foglie, ricci e qualche castagna che si trovavano trai i piedi. Erano sempre qualche passo avanti alle mamme che invece, con un occhio fisso sui pargoli, chiacchieravano fra loro come sempre. Tutto intorno il rumore del bosco.
Dopo circa una decina di minuti la voce di Alberto si fece sentire:
−Mamma, mamma ecco la fune!
In effetti davanti a loro due alberi erano legati da una fune, sembrava esattamente il segnale di cui aveva parlato Giulio.
−Direi che ci siamo bimbi! Ora ci inoltriamo tra gli alberi, mi raccomando: state sempre vicini a noi e attenti a dove mettete i piedi, perché ci possono essere delle buche e potreste cadere e farvi male.
Davide che era il più timido dei tre si avvicinò alla mamma, mentre gli altri due, sempre in lotta fra loro dovevano dimostrare chi fosse il più coraggioso e quindi cercavano di allontanarsi almeno un po’ da Chiara. Lei, abituata, li controllava a vista, ma li lasciava fare, sapeva che a sgridarli non ci avrebbe ricavato nulla, meglio tenerli d’occhio e richiamarli solo se si fossero spostati troppo.
I cestini si stavano riempiendo facilmente, anche Davide, dopo un po’ di esitazione, si era avvicinato agli altri due bambini e tutti e tre stavano raccogliendo castagne vicino a un grosso tronco. Alberto aveva trovato un bastone e si divertiva a spostare le foglie già cadute.
−Ehi, che cosa c’è qui che non si spostano queste foglie? – disse a voce alta, mentre il ramo che teneva in mano si era bloccato sul terreno.
−Aspetta che ti aiuto! – si avvicinò Alessia e con il piede cercò di spostare quello che fermava il bastone. Credeva fosse un sasso, riuscì a muoverlo un po’ e dalle foglie emerse una mano.
−Un manichino? – chiese a voce alta Davide
− La gente butta sempre le immondizie in giro e ci inquina, lo dice sempre la mia maestra! – rispose Alessia, mentre Alberto le faceva il verso.
Le mamme, sentendo i discorsi dei bimbi, si guardarono – Meglio che diamo un’occhiata, non vorrei ci fossero immondizie pericolose – disse Silvia, la mamma di Davide.
Si avvicinarono e capirono subito che quella mano non era di plastica, si fissarono per un secondo, poi Chiara disse: − Bambini, è un manichino pericoloso, meglio se ci spostiamo e chiamiamo il vigile.
−Mamma, ma inquina veramente?
−Sì, molto…− continuò Chiara, mentre Silvia si era già spostata di qualche metro e aveva estratto il cellulare.
−Qui non prende, meglio se torniamo verso l’auto.
I bambini si lagnarono un po’, ma grazie ai cestini colmi le mamme riuscirono a convincerli. Vicino all’auto il telefono cominciò ad avere campo, Silvia si scostò dal gruppo e compose il numero dei carabinieri, parlò per qualche minuto, mentre Chiara cercava di intrattenere i bambini.
−Chiara, vieni un attimo.
−Scusate bimbi, le mamme parlano un secondo, voi continuate a contare le castagne, mi raccomando, mettetene una per cestino a turno così ne avrete tutti lo stesso numero.
−Dobbiamo aspettare qui. – esordì Silvia parlando sotto voce appena Chiara le fu abbastanza vicina. – Quindi dobbiamo spiegare qualcosa ai bambini e ho paura che chiederanno anche a loro… forse è meglio inventarci qualcosa.
−Già, ma mica possiamo dire loro che hanno trovato un corpo.
−Beh, continuiamo con la storia dei rifiuti.
−E quando arrivano i carabinieri? Cosa facciamo? Gli vado incontro e gli dico, scusate, ma ai bambini parlate di rifiuti, non di morti?
−Sì, mi sembra un’ottima idea.
−Stavo scherzando!
−Beh io no, secondo me è un’ottima idea. Dai torniamo a spiegargli tutto.
-Anzi no, chiamo mio fratello, verrà a prenderli. Non serve che restano qui.
-Meglio!
-Chiamo subito.
Le due donne aspettarono agitate l’arrivo di Carlo e quando videro la sua macchina, furono sollevate. Era arrivato prima dei carabinieri per fortuna.
Salutarono i bambini e si misero in attesa, un’altra volta.
-Chi si aspettava un raccolto così ricco! – disse Chiara. Silvia la guardò come se l’altra fosse scema, poi rise.
E risero insieme, fino a quando videro arrivare i carabinieri.
Adesso si apriva un’altra storia.

Erika Franceschini

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Pesaro

Pesaro è fatta come una margherita e ogni petalo è un quartiere. Il centro si raggiunge entro 15 minuti con la bici, percorrendo quasi solo le piste ciclabili. Un gioiello accoccolato tra due colli, raccolto e armonico che non conosce le file interminabili di strade affollate di automobilisti in tragitti infiniti verso destinazioni periferiche o sub centri urbani come i grandi capoluoghi.
Attraversare la città in un giorno affollato anche su due ruote può essere poco appagante, è la scusa per dirottare il proprio cammino lungo le vie laterali meno battute, si entra così nel clima delle stradine storiche, le più antiche del borgo rinascimentale testimoni delle lotte del Risorgimento, seguendo la linea immaginaria che porta diritti al mare.
E piacevolmente accarezzati dalla brezza di una domenica pasquale si raggiunge il lato di margherita senza petali, come strappati da una spuma marina, ripetendo M’ama non M’ama, di un bel tritone mitologico e lì in quel punto meraviglioso si apre il Mar Adriatico che bagna la città e culla il sole al tramonto e all’alba.
Lungo il viale che accompagna la lingua di spiaggia, una fila discontinua di alberghi muti e assonnati si affaccia in posizione privilegiata a contemplare tanta bellezza. Corpi anonimi in inverno che assistono alla deragliante cavalcata delle onde. Oggi scorgono la danza leggera del mare che saluta semi addomesticato i primi pellegrini della stagione in visita reverenziale.
Uno sguardo indagatore e inopportuno osserva le cabine spoglie e scolorite non ancora rinnovate con la sensazione di invadere un momento di intimo raccoglimento, come ballerine assorte e sgraziate in procinto di scaldarsi, oppure modelle in déshabillé, disadorne e sciatte in attesa dell’abito che travolgerà le loro forme illuminandole e conquistando le copertine patinate.
Tra le file di cabine, tratti di mare placido e blu opaco attraggono lo sguardo che si affanna a cercare qualcosa di conosciuto e viene divorato dall’assenza di tutto ciò che in estate attrae perdutamente. Non c’è un ombrellone, né un lettino sperduti tra i dossi di sabbia compatta, i bar e i ristorantini si susseguono privi di ospitalità, gli spazi attrezzati per partite in spiaggia sono campi desolati.
Eppure il fascino di questo spazio fuori stagione è tangibile e di spessore, si avverte nell’aria che ti sfiora e ti accoglie, non rinnega la tua presenza, meno violento come concetto del “mare d’inverno che il pensiero non considera” più garbato, che alberga nel profondo, un intimo desiderio di solitudine e arrendevolezza nel consolatorio susseguirsi delle onde inviolate.

Michela Santini

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Una visita particolare

Da tanto tempo voleva tornare nella sua città. Erano secoli che programmava una visita, ma per vari motivi non ci era mai riuscita.
Finalmente era davanti alle mura. Le guardò con emozione mista a rispetto. Erano possenti e chiomate. Il colore rosato dei mattoni sprigionava un forte calore che si andava sublimando contro il cielo azzurro chiaro dell’estate avanzata.
Con emozione guardò il solenne portone di Porta San Pietro e la fresca oscurità delle sue tre arcate che la invitavano a entrare e trovare un po’ di refrigerio.
Pochi passi e poi di nuovo all’aperto, di fronte ai primi eleganti palazzi di “Lucca dentro”. L’emozione era grande: da dove cominciare?
Lo sguardo corse alla piccola scalinata a destra che si arrampicava sul poggio e che portava alla sommità delle mura.
Con pochi, rapidi passi le raggiunse e si affacciò dal balcone.
Ecco la sua città.
Si avviò lentamente verso il baluardo San Colombano. Numerosi turisti, a piedi o in bicicletta, affollavano la strada che correva sopra i bastioni. La frescura degli alberi annullava il caldo offrendo un riparo accogliente.
A sinistra si estendeva l’orto botanico con il suo misterioso laghetto. Quante volte nella sua infanzia aveva sentito la nonna raccontare la storia di Lucida Mansi! Quella storia le era rimasta impressa nella mente.
Lucida era un’affascinante nobildonna lucchese che non aveva esitato a uccidere il marito per essere libera di condurre una vita dissoluta. Aveva avuto moltissimi amanti che uccideva, dopo una notte di passione, facendoli precipitare in una botola sita al centro della sua camera.
La bellissima nobildonna aveva il terrore del tempo che passava e che aveva iniziato a solcare il suo volto. Per questo aveva accettato la proposta del diavolo e gli aveva venduto l’anima in cambio della promessa di trent’anni di giovinezza.
Gli anni erano passati in un lampo senza che la sventurata se ne rendesse conto e una notte il diavolo giunse inesorabile a reclamare il suo pegno.
A nulla valse la pazza corsa di Lucida verso la torre dell’orologio per fermare la campana che avrebbe suonato la mezzanotte. Non fece in tempo e il diavolo la portò via per sempre in una carrozza infuocata che, dopo aver percorso le mura a velocità folle, si inabissò nel laghetto dell’orto botanico.
Ancora adesso sentiva i brividi salirle su per la schiena all’immagine della carrozza che, in una notte buia, sprofondava nello specchio d’acqua, trascinando con sé per sempre la povera disgraziata.
Basta, però, con le storie maledette!
Ritornò sui suoi passi e scese le scalette delle mura che portavano verso l’abside di San Martino.
In breve fu nella splendida piazza del Duomo. La facciata era lì, immutabile nella sua bellezza.
Dopo una storia così piena di orrore aveva bisogno di spiritualità e di buoni sentimenti.
Entrò con timore reverenziale dalla porta laterale e si trovò immersa nella penombra. Le colonne altissime si perdevano verso il soffitto in uno slancio ardito fino a culminare nella volta dove, in un cielo blu, brillavano migliaia di stelle dorate.
Sapeva dove andare. Con passo sicuro si diresse verso la sacrestia nella quale avevano collocato il sarcofago di Ilaria del Carretto.
Eccola, bellissima, composta nell’ora della sua morte. L’espressione dolce e serena, gli occhi chiusi in un volto di un bianco trasparente e levigato che nessun segno del tempo aveva ancora offeso.
La storia di Ilaria, morta giovanissima, simbolo dell’amore coniugale, amatissima dal Guinigi signore della Città, era notissima a Lucca.
Avrebbe voluto accarezzarle il volto, ma un cordone di sicurezza glielo impediva.
Si accontentò di contemplarla girandole intorno. Alla fine uscì dalla sacrestia a malincuore.
Quello spazio senza tempo aveva avuto il potere di riempirle l’animo di serenità.
Fuori dall’oscurità avvolgente della cattedrale, la luce accecante del sole di agosto le ferì gli occhi. Sbattendo le palpebre, scese i pochi gradini e si ritrovò immersa in un mercatino dai mille colori e dai mille oggetti. Il mercato dell’antiquariato, che si snodava tra le strade antiche e le piazze, era frequentatissimo dai turisti. Si ritrovò a girellare tra le bancarelle dove, accanto a importanti mobili d’epoca, erano in esposizione anche centinaia di oggetti del tempo che fu. Quello che però l’attirò fu l’angolo dei libri, migliaia di volumi usati, suddivisi per argomento. E lì si perse per un periodo che le parve infinito.
Quando si riscosse, il sole non era più alto e le ombre dei palazzi cominciavano ad allungarsi, riappropriandosi degli spazi che, fino a poco prima, erano riscaldati dai raggi roventi.
Aveva scelto. Teneva tra le mani un volumetto, stampato più di cento anni prima, che narrava le leggende di Lucca.
Scorrendo l’indice aveva visto che due capitoli erano dedicati a Lucida e a Ilaria.
Due donne, due vite, due modi differenti di essere. Lucida e Ilaria avevano vissuto in secoli diversi nella sua città. Quanto ci fosse stato di leggenda o di verità nelle loro vicende non avrebbe saputo dire, certo, però, avevano contribuito a rendere ancora più interessante la storia di Lucca.
Amori, delitti, passioni, fedeltà, tradimenti, tutto si era svolto e intrecciato tra le mura antiche che non avevano mai subito assalti guerreschi, ma che dal sedicesimo secolo proteggevano la piccola città in un abbraccio possente.
Lentamente lasciò le vie del mercato e percorse via Fillungo ancora affollata dai numerosi turisti.
Si sedette al tavolino di un piccolo caffè in piazza San Frediano. Un bicchiere di vino dei colli lucchesi e il libro.
Cominciò a sfogliare le pagine ingiallite e fragili con trepida attenzione. Tutto scomparve intorno a lei: non le serviva altro.

Luisa Bonaccorsi

 

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Scrittori in Corso chiude i lavori

Scrittori in Corso si era preso un periodo di pausa per scrivere su un nuovo progetto. Volevamo raccontare le nostre città e poi continuare con i racconti incipit che sono il nostro marchio di fabbrica. Invece è successo che ci siamo un po’ persi. Le vite dei membri del collettivo in questi anni sono cambiate, qualcuno si è laureato, qualcuno si è sposato, qualcuno ha avuto figli, qualcuno ha pubblicato libri… Il blog ne ha risentito e purtroppo abbiamo dovuto guardare in faccia la realtà e ammettere che non riusciamo più a gestirlo come vorremmo. La pausa che ci doveva ricaricare, invece, è stata fatale. È diventata una fine, anche se lo scriviamo con un peso nel cuore, perché amiamo quello che abbiamo creato in queste pagine ed è triste pensare che non ce ne saranno di nuove.  Pubblicheremo ancora qualche racconto, quelli che erano stati scritti per le città, ma poi Scrittori in Corso chiude i lavori. 

Ringraziamo tutti coloro che in questi anni ci hanno letto. Chi vorrà, potrà seguirci nelle nostre vite da perenni scrittori in corso, nei social, nei profili personali.

Grazie di tutto e continuate a leggere, a scrivere, a sognare e creare!

Il Collettivo di Scrittori in Corso

 

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Quel Natale del 1936

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Per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare che la mia mamma mi abbia parlato dei Natali di quando era bambina. Mai un cenno, neppure di sfuggita. Né d’altra parte le ho mai chiesto di raccontarmi come li avesse passati e quali regali avesse ricevuto. Sicuramente, come tutti i bambini un po’ egoisti, sia pure nella loro innocenza, quello che mi interessava era il “mio Natale”, quali e quanti regali mi aspettassi e la frenetica attesa della vigilia.
Quando mi parlava della sua infanzia, lo faceva di malavoglia, con riluttanza. Lei e suo fratello, mio zio, erano stati due bambini che erano cresciuti da soli, senza la mamma e il babbo. Certo non erano stati abbandonati, erano stati affidati alle cure dei nonni, ma si sa, non è la stessa cosa.
I genitori erano in Brasile a “cercare fortuna” come si diceva allora. I bambini non potevano stare con loro, la mia mamma da piccola aveva sofferto di otiti molto dolorose e il clima caldissimo di quel paese non le faceva bene per cui, all’età di cinque anni, era stata rimandata in Italia e poco dopo l’aveva raggiunta il fratellino.
I nonni li avevano accolti benissimo, ma la mancanza dei genitori pesava. Ora che la mia mamma è mancata, spesso mi rimprovero di averle fatto poche domande sulla sua vita da ragazza, avrei voluto capire di più quello che aveva passato.
È così che ho cominciato a raccogliere ricordi, a cercare foto, a chiedere ai parenti per ricostruire, per quanto possibile, la sua vita e quella dei miei nonni. Proprio durante una di queste ricerche, mi sono imbattuta, tra le tante fotografie dal colore del tempo passato, in un foglio di carta protocollo, di quelli che si usavano un tempo a scuola e che venivano detti “da computisteria”.
Era piegato in quattro, ben conservato, portava la data del 9 gennaio 1937. Era vergato con tratti di penna color seppia: la scrittura ordinata e precisa di due scolari disciplinati.
Sono rimasta sorpresa e affascinata: erano le letterine che la mia mamma e mio zio avevano scritto ai loro genitori per raccontare il loro Natale appena passato!
“Cara mamma e babbo – scriveva mio zio di otto anni – anch’io insieme alla nonna voglio scrivervi e raccontarvi tante cosine. Per Natale ho scritto la letterina ai nonni e ho guadagnato fra tutto £ 15, quanti soldi vero? La Befana anche quest’anno mi ha portato tanti regalini: il meccano, la palla, la borsa, le matite, la calza piena di arance e una mela. Tanti saluti e bacioni affettuosi dal vostro caro figlio”.
A seguire la lettera della mia mamma, che aveva dodici anni:
“Cara mamma e babbo, anche quest’anno le belle feste sono passate. Io, come noi tutti, l’abbiamo passate bene e in ottima salute. Credo che anche voi l’abbiate trascorse bene. A scuola mi va bene e la signorina è contenta di me e così spero di continuare. L’avete ricevute le nostre letterine del Natale? Credo di sì. Le ho scritte anche ai nonni e in tutto mi hanno dato £ 15. La Befana mi ha portato una bella penna stilografica, un berretto e tanti dolci. Sono cresciuta molto e ho raggiunto l’altezza della nonna e sono grassa. Sono contenta che vi vada tutto bene e ho pregato e pregherò per voi perché le cose continuino sempre bene. Saluti e baci affettuosi. Vostra figlia”.
Nel leggere queste brevi righe, ho visto nella mia fantasia questi due bambini scrivere le loro semplici lettere, curvi sul tavolo di cucina, coperti da maglioni di lana ben spessi, perché, come mi raccontava la mamma, al paese, dove stava con i nonni, faceva freddo e la casa allora non veniva molto riscaldata, il nonno stava attento alle spese. Solo la cucina era un ambiente che godeva di un po’ di tepore, grazie alla stufa economica. Per andare nelle altre stanze occorreva mettersi il cappotto.
Ho capito però che, anche nel freddo dell’inverno, erano comunque sereni. Si sentivano protetti dai nonni e fiduciosi che i loro genitori c’erano, anche se temporaneamente assenti.
La lettera viene chiusa da brevi righe della nonna che saluta la figlia e il genero: i miei nonni.
Qui il tono cambia, si sente la pacatezza di una donna ormai molto anziana, un po’ triste, che cerca di rassicurare la figlia del fatto che i bambini stanno bene: “I bimbi sono quelli che ci tengono allegri, vedendoli contenti per quel poco che hanno avuto per Natale e per la Befana. Ci scrissero delle belle letterine che consolavano a leggerle. Spero avrete ricevuto quelle che scrissero per voi e che vi spedii il 23 dicembre. Dovetti levare dal pacco la cullina con Gesù Bambino perché passava il peso, ma a loro non dissi nulla, se no ci rimanevano male”.
La lettera va avanti con il racconto della partecipazione di tutti loro alla messa di mezzanotte celebrata all’asilo: “Non faceva freddo e anche io ci stetti bene”.
La lettera si chiude con la rassicurazione che anche i bimbi stavano bene.
Confrontando le date, grazie alle foto, ho potuto ricostruire alcuni frammenti della storia della mamma e capire poi il perché della ritrosia a parlare della sua infanzia. L’attesa fiduciosa di quella bambina di una ricongiunzione familiare non ebbe l’esito sperato. Passarono lunghi anni prima che almeno parte della famiglia si ricostituisse. La sua mamma tornò, per morire improvvisamente poco dopo, mentre il babbo rimase ancora per molto tempo a vivere la sua avventura in quelle terre lontane.
Mi chiedo, ora che ho letto i suoi pensieri di bambina, come la mia mamma vivesse il Natale con noi figlie e capisco di più il suo carattere sempre un po’ malinconico durante le feste.
Ricordo però, e non dimenticherò mai, il calore della nostra famiglia riunita per preparare il presepio e le lotte per avere l’onore di posizionare i personaggi, in particolare il Bambino e la sua cullina. Chissà se la mamma in quei momenti si ricordava di quando, a sua volta, li aveva incartati con tanta cura e li aveva messi nel pacco da spedire ai suoi genitori?
Sicuramente, anni dopo, doveva avere scoperto che la culla e il Bambino non erano mai partiti. Infatti il foglio era custodito tra i suoi ricordi. Evidentemente la mia nonna l’aveva riportato in Italia.
Mi sembra di vederla, mentre legge la lettera di sua nonna e sorride per quel sotterfugio innocente ordito per non rattristare dei bambini che già soffrivano abbastanza per la lontananza dei genitori. Alla fine, grazie a quei semplici pensieri, ho potuto conoscere uno dei Natali della mamma che, forse, non è stato il più importante, ma certamente è stato vissuto con quella carica di fiducia e di speranza nell’avvenire che solo i bambini possiedono.

 

Luisa Bonaccorsi

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Recensione – In arte Peter Sellers

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BIOGRAFIA: Non credo ci siano ancora recensioni di biografie sul blog, eppure è un genere tra i più prolifici e antichi nella nostra tradizione. È vero, da un lato le vendite sono così alte grazie a campioni d’incasso quali Io, Ibra e Le corna stanno bene su tutto, ma in questo caso ci orientiamo più verso un vero e proprio romanzo con tutti i crismi. Andrea Ciaffaroni narra la vita di Peter Sellers con una passione tale da immaginarselo mentre gode della grandezza del personaggio, come un amico in piena ammirazione.

RISCOPERTE: Non pensavo ci fossero così tanti prodotti audiovisivi con Peter Sellers rimasti nell’ombra per mancate traduzioni o distribuzioni in Italia. Ho iniziato da poco il “recuperone”, e mi sono reso conto di quanto sia necessario questo volume per avere una guida completa (l’unica in italiano) per amare a tutto tondo uno dei migliori attori comici di sempre. Stiamo parlando di una delle ispirazioni maggiori per i Monty Python! Poi ho capito che non si può più rimandare: devo imparare l’inglese, ecco a cosa serviva! Se solo me l’avessero detto alle superiori…

COLLEZIONISTA: L’autore è un collezionista, e questo si può vedere nello scorrere delle pagine già dalla quantità di foto e documenti riprodotti, rari e bellissimi, come locandine, contratti o biglietti di spettacoli. È magica la situazione che si crea quando un collezionista legge delle rarità altrui e tra le righe trova strizzate d’occhio e cenni d’intesa, sentendosi vicino all’autore pur leggendolo a notevole distanza.

 

Aniello di Maio

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Recensione – I love shopping a Natale

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PAROLE: questa volta mi è proprio difficile racchiudere questo libro in tre parole, non perché sia un testo particolarmente complesso, anzi, ma perché è emotivamente profondo per me (oh Dio, forse profondo non è proprio la parola giusta, diciamo che è carico, sì, carico va bene come termine).
Ho preso questo romanzo in libreria dopo aver visto la pubblicità in una rivista letteraria, perché volevo tornare indietro di quindici anni, sì, ne sono passati così tanti da quando gli ‘I love shopping’ accompagnavano i miei riposi post esame. Erano le letture leggere che mi hanno rilassato dopo i mattoni di letteratura medievale o filologia romanza (più che un esame, quest’ultimo, è stato un’agonia). All’epoca ero una studentella squattrinata che vedeva in Rebecca Bloomwood qualcosa di americano, impossibile nella nostra realtà. Ecco, dopo 15 anni la vedo molto più vicina di allora, lo shopping online ci accomuna, così come la ricerca della decorazione per l’albero o del regalo di Natale. Insomma ora Rebecca è una di noi. Questi testi continuano ad essere divertenti ed esilaranti, anche questa volta ci sono pagine che mi hanno fatto ridere a crepapelle, non mi hanno fatto ringiovanire come speravo, ma almeno mi hanno alleggerito le serate.
PECCA: ecco, ci provo a mettere un’altra parola: io ci ho visto 2 errori o meglio due imperfezioni, due cose che compaiono all’improvviso ma che hanno poco a che fare con il resto. Non posso dirvi cosa perchè ci toglierei la magia, ma mi hanno lasciato un filo di amaro in bocca. Ciò non toglie che andrò a prendere i due che mi mancano e che aspetto già i prossimi.

 

Erika Franceschini

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L’ORO

E’ tarda estate e il sole, con lo scorrere dei giorni, tende a tramontare sempre più presto. Tuffandosi ed addormentandosi concede i suoi ultimi raggi che, tra giochi di percezioni e meccaniche visive, creano piccoli cerchi sfocati di vario colore.
In un piccolo quartiere della cittadina, uno di quelli in cui quei alti palazzi furono favoriti dalla ‘’167’’, Maria esce di corsa nervosa ed arrabbiata dal forno in via Ottawa n.19.
Lì tutti conoscono quella piccola attività: un piccolo garage risistemato ed adibito con il necessario richiesto per l’umile e faticoso lavoro.
Ha un’insegna gialla, visibile in quel preciso e particolare istante in cui il cielo si riempie di blu, celeste e rosa e le vie assistono ad un via vai di impiegati sfrecciare verso casa su di una bicicletta d’epoca e in contrasto con la loro cravatta; o gli alimentari a cui si accingono quei giovani tirocinanti che provvedono a comprare frettolosamente qualcosa per la loro cena, con la consapevolezza di dovere spendere circa 7000 lire per poter far quadrare i conti a fine mese.
All’interno di quel rettangolo luminoso e giallo vi è scritto ‘’Da Antonio-Forno a legna’’ e da anni è un’istituzione nel quartiere, quella che salva tante mogli quando non riescono a comprare in tempo il pane fresco per i loro mariti.
Ma Maria sa bene che la normalità, quello scorrere lento di una quotidianità pesante e struggente, la sopprime e la lascia cadere nell’oblio dell’abitudine.
Sono gli anni 70 e non c’è spazio per avere spazio.
Con le mani apre quella tenda colorata posta sulla porta d’ingresso del forno per poter uscire e frettolosamente prende la sua Bianchi del 1963, soprannominata Candyland perché bianca come le piantagioni del cotone dell’800 in cui lavoravano gli schiavi d’America. La strada è scandita dal traffico tipico delle ore 19.30 di una sera estiva, dove da padrone li fanno i 27 gradi percepiti e accompagnati da una presente umidità tipica del posto.
Provvede subito a salire in sella ed inizia a pedalare.
Candyland riesce a darle un po’ di sollievo e piacevolmente il vento l’accompagna verso una destinazione a lei ignota: sé stessa. La testa, i suoi pensieri; per un breve momento riesce ad allietarli, venendo dolcemente accarezzata dal fresco vento che le concede la sua pedalata.
Quella cittadina era il valido presupposto tra la invana ricerca di solitudine e l’asfissiante idea di dover condividere pochi metri accanto ad altri estranei, e questa continua ricerca le poneva delle domande: chi era Maria fra le due città che la stessa poteva offrirle?
Cosa poteva essere per lei quel piccolo angolo di mondo a cui stava donando gli anni della sua vita e che si stava prendendo in mano la vita di Maria stessa?
Mentre le ruote della bici girano senza sosta, case e palazzi le sfrecciano correndo nella direzione opposta al sentiero da lei scelto e Maria è lì che segue incessante i sentieri dei suoi pensieri: iniziano ad apparirle ad alcune centinaia di metri distese di grano di color giallo e oro che riflettono nella sua visuale verticali rette di luci e spine.
Quei giochi di ombre e abbagli, concessi da lievi lampi di luce del sole cadente, danno contorni e forme all’asfalto caldo di quel paese, allietando quelle strade di Maria tormentate, pesanti, di un grezzo pensiero di perdizione e pigrizia.
Maria non sa dove sia l’infinito, non sa quale strada percorrere nella sua esistenza, cosa ci sarà e cosa accadrà: non riesce a dare risposte alle sue domande, nessuna spiegazione che giustifichi apparentemente quel suo perso senso del cercare in qualcosa che percepisce in sé stessa ma non vede fisicamente con i suoi occhi.
Solo desolante silenzio, solo la rotazione meccanica delle sue gambe in sella al suo senso del fuggire da quel posto, a tratti dalla sua mente, altri da ella stessa.
Cos’è una strada, un abbaglio, una luce senza dolore, senza le urla di un giovane infangato e morto sull’asfalto rovente di quella terra che non le reca né perdono e né dolcezza, da cui non riesce ad allietare il suo senso di sete?
Quell’attività condotta con la sua famiglia le resta l’unico appiglio ad una vita certa di dolore, rabbia e precarietà a cui il suo senso del cercare ed evasione si abbassa zittito di fronte ad esso e la riporta sulle sue strade, come obbligata ad essere inghiottita da un buco nero: Candyland le è stata di conforto ma non ha saputo portarla a una risposta certa.
Quando decide di tornare a casa, proprio dietro l’insegna gialla in via Ottawa n.19, ad accoglierla vi è suo padre che ha appena sfornato del pane caldo ben cotto, proprio come piace a lei.
E quel profumo la pervade. La riempie. La sovrasta.
Le distrugge quei pensieri incessanti di un’ora prima.
Il padre la vede entrare in casa come il chiaro del sole appena sorge la mattina, che entra dalla finestra ed apparecchia il tavolo di varie tonalità di giallo.
Prende il coltello e provvede a tagliarle un pezzo di quel pane fumante poggiandolo su un piatto. Prende la bottiglia di vetro con all’interno del dolce olio dal colore d’oro facendo due tre giri su quella fetta e lo porge a Maria.
Entrambi siedono sul tavolo e, mentre sua figlia calma il suo animo ad ogni boccone, suo padre la guarda e le dice ponendo fine a quel silenzio: Sei le dita che stringo al nulla, la rugiada sulle gote. Il giallo, il bianco ed anche il nero dei dipinti che osservo. La voce che mi giunge e le parole che non ti ho detto.

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Recensione – Il regno del drago d’oro

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TRILOGIA: visto che non mi smentisco mai, questo è il secondo volume di una trilogia. Ma ti pare che sono partita da quello sbagliato? Pazienza, ormai è fatta. Devo dire, comunque, che si fa leggere benissimo nonostante non sapessi gli antefatti. Complimenti all’Allende, che evidentemente aveva previsto che ci sarebbe stato qualcuno che prendeva il libro a caso, senza sapere niente di niente, e che aveva bisogno di qualche spiegazione, breve, di quanto era successo nel primo volume. Grazie, non ho accusato il colpo (anche se un sospetto da brava lettrice lo avevo).
Mi piacerebbe sapere invece, se chi li ha letti nel giusto ordine ha trovato tediosi i rimandi alla Città delle Bestie.

FANTASTICO: non ho letto altro dell’autrice, che conosco praticamente solo di fama, ma so che questo tipo di romanzi si differenziano dalla sua storia editoriale.
A me è piaciuto, anche se avrei detto che mi prendesse di più. Mi ha coinvolto di più durante i primi capitoli, dopo ha un po’ perso presa, anche se ovviamente ci sono stati i momenti di attesa, di ansia, che hanno riscattato il tutto.
Il fantastico qui si sposa con lo spirituale e nella mia testa non esiste un modo per separare i due elementi.

REGNO: il Regno del Drago d’Oro è una specie di paradiso. Nessuna violenza, un re saggio e un popolo che vive nella semplicità. Verrebbe da trasferirsi subito! Ma l’avidità arriva e stravolge tutto ciò che è sempre stato. Fatalità, avidità e protagonisti arrivano nello stesso momento, con lo stesso volo. Strano, no? L’International Geographic doveva fare un articolo sul Regno proprio nella stesso momento in cui dei criminali hanno deciso di rubare il Drago d’Oro!
Le sfighe della vita (almeno quella letteraria).
Rapimento, neve, yeti, monaci buddisti e molto altro vi aspettano in questo romanzo!
Vi ho incuriositi un po’?

 

Monica Spigariol

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