Paura della libertà

PrigioneVide la porta aprirsi lentamente. Cigolò, con il solito, freddo rumore metallico. Attese con pazienza che fosse spalancata, poi si alzò dall’angolo buio in cui era raggomitolato, barcollò incerto fino alla soglia, fece un lungo respiro. Quella era l’inizio del suo ultimo giorno.
Avrebbe dovuto essere felice, finalmente quell’incubo stava finendo almeno ma non era così.
Sua moglie non voleva più saperne di lui, aveva sopportato troppo; le sue figlie non l’avrebbero neanche riconosciuto, sempre che fosse riuscito a vederle almeno una volta. Aveva sbagliato tanto, troppo e sapeva che da solo l’avrebbe rifatto, aveva bisogno di qualcuno, di una persona che gli volesse bene, che gli stesse vicino e che lo sostenesse, ma ormai nessuno accettava quel ruolo. In fin dei conti era lui che non si era fatto aiutare.
Quel giorno stava passando troppo veloce, sarebbe arrivato il momento di uscire, tutti i suoi compagni di carcere sognavano di essere al suo posto, alcuni non avrebbero più potuto assaporare la libertà; lui invece voleva rimanere lì, protetto da quelle mura, lontano dalla vergogna che provava per se stesso, lontano dalla solitudine.
Fra quelle mura poteva ancora sperare che fuori qualcuno lo stesse aspettando, che la sua famiglia ancora l’avrebbe voluto, ma sapeva che uscendo avrebbe avuto davanti agli occhi la verità. Lo chiamarono, era il momento. Adempì a tutti gli obblighi senza rendersene conto.
Salutò, lasciandosi trasportare dalle parole degli altri. Il terrore lo aveva preso e non se ne andava più.
Sentì il calore del sole sulla pelle, vide l’asfalto sotto i piedi, non aveva il coraggio di alzare lo sguardo, vedere chi era venuto a prenderlo e soprattutto scorgere lo sguardo triste e arrabbiato di quella persona.
<< Ciao papà!>> quella vocina dolce e felice la conosceva bene, i suoi occhi si riempirono di lacrime, il suo cuore batteva all’impazzata, non riuscì ad alzare lo sguardo ma si abbassò, si inginocchiò e fu investito da due corpicini caldi e felici, quattro braccia quasi lo strangolarono; la paura in un attimo era scomparsa per far posto ad una sensazione strana, che non provava da anni. Stava singhiozzando. Aveva voglia di ballare, di urlare al mondo la sua gioia.
Alzò gli occhi e incrociò quelli di sua moglie, lei non parlava, lo guardava piangendo, anche se non ne capiva il perché. Non sembrava triste, forse era arrabbiata o felice, ma non glielo avrebbe mai dimostrato.
Si alzò faticando un po’ a staccare le bimbe, si avvicinò a lei, la abbracciò.
Lei era tesa, fredda, lui avvicinò la sua bocca all’orecchio e le sussurrò piano, con dolcezza una sola parola: << Grazie!>>
Lei non rispose, però le si aprì un piccolo sorriso sulle labbra, le bimbe ripresero il sopravvento con mille racconti, abbracci e baci. Salirono in auto, lui fra le sue bimbe, loro volevano così e mentre ascoltava quelle dolci voci, osservava il viso di sua moglie. Le si erano formate delle piccole rughe attorno agli occhi, piccoli segni di una vita che lui le aveva reso difficile, il suo sguardo aveva perso tutta la gioia che lo caratterizzava quando si erano conosciuti. Erano passati 10 anni da quell’incontro e lui si era innamorato subito, aveva fatto di tutto per conquistarla e non era stato facile, aveva sofferto e lottato ma alla fine ci era riuscito e l’aveva sposata, un matrimonio in grande stile, come piaceva a lei.
Erano stati felici insieme, finché lui non aveva rovinato tutto: quel maledetto progetto andato male, poi la droga per aiutarsi e infine il carcere. Neanche le due piccoline che giravano per casa lo avevano fermato, aveva continuato imperterrito fino alla distruzione totale di sé e di chi gli stava intorno.
Quanta sofferenza aveva sopportato a quella donna che ora era lì, davanti a lui. Quante volte aveva nascosto alle bimbe la verità ridendo e giocando con loro, mentre dentro la rabbia e il dolore l’affliggevano. Quante volte lei l’aveva aspettato alzata mentre se ne stava in giro. Quante volte l’aveva accompagnato al centro di recupero o aveva chiamato a casa l’assistente sociale per farsi aiutare. Era una donna fantastica, lui lo sapeva e si vergognava per quello che le aveva fatto, soprattutto adesso che, per l’ennesima volta, lei dimostrava la sua grandezza, la sua bontà e il suo amore.
Le appoggiò la mano sulla spalla, lei alzò gli occhi allo specchietto, lui la guardò e ricominciò a piangere. Si vergognava troppo. Lei sorrise, quel sorriso dolce, amorevole con cui l’aveva guardato tante volte in passato. Sapeva di non poterla deludere ancora: la posta in gioco era troppo alta. Continuò a piangere mentre le piccole lo abbracciavano, sarebbe stata dura ma non era solo e soprattutto ora sapeva che cosa significava essere solo e perso in una cella di un carcere.

Erika Franceschini

Informazioni su Scrittori in Corso

Collettivo di scrittura e laboratorio di stile di scrittura creativa. Dal Marzo 2015 si promuove come ritrovo per autori emergenti e non, con lo scopo di migliorare la fruibilità delle produzioni letterarie contemporanee in un contesto di social media. Non costituisce una testata giornalistica ai sensi della legge n. 62 del 7-3-2001.
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